Erano mesi, che smanettavo su Internet, alla ricerca di una missione di volontariato. Poi un giorno ho scoperto che la Projects Abroad presentava i suoi programmi a Roma. E’ un’associazione internazionale che, fra le tante iniziative, organizza anche viaggi di volontariato per gli over 50. Era la mia occasione.
In realtà, mentre mi avvicinavo al luogo dell’incontro, facevo un passo avanti e due indietro, sicura di trovare vecchie zitelle e orribili adolescenti. Naturalmente non avevo capito niente: la sala era gremita di donne con diversi bambini e di padri orgogliosi delle esperienze fatte dalle loro belle e giovani figlie. Ho deciso immediatamente: sarei partita. Per un viaggio di volontariato, ma che mi lasciava anche spazio, per conoscere la meta di destinazione. E così la scelta è caduta su Hanoi, una parte di Oriente che non avevo mai visitato.
La mia mansione sarebbe stata quella di occuparmi di bambini. Non avevo davvero idea di che cosa potesse aspettarmi. Il primo giorno mi avvicinai a un moto-driver e, casco in testa, sfrecciai per le vie convulse della città’, fino alla Bede Pagoda, abitata soltanto da monache. Un luogo isolato, dove i ritmi si susseguono uguali, dove il tempo sembra essersi cristallizzato.
Dove vivono orfani, bambini con le loro mamme indigenti, vecchi appollaiati tutto il giorno sulle loro sedie. C’erano tutti i bambini con cui giocavamo (il massimo del mio contributo fu fargli fare il girotondo con caduta finale che li appassionava moltissimo), gli insegnavamo a disegnare, a dire qualche parola d’inglese, a lavarsi le mani e i denti. Ma soprattutto li tenevamo in braccio, per ore, in un contatto caldo e diretto. C’era anche il dolore: bambini menomati, a distanza di tre generazioni, dalle sostanze tossiche usate durante la guerra del Vietnam. E che piagnucolavano, immobili, se qualcuno non si accorgeva che avevano perso la loro gamba di plastica, chissà dove. Ma il clima era sereno, con giovani madri in attesa di un figlio e frotte di bambini che urlavano, correvano, ridevano.
HANOI
Ormai conoscevo benissimo la città, caotica, convulsa, rumorosa, assediata dai motorini, ma con il fascino di qualche casa delabrè, del Teatro dell’Opera, delle ville lussuose e della grazia delle venditrici di fiori.
BAIA DI HALONG
E’ qui che mi sono concessa il lusso di trascorrere il primo fine-settimana a bordo di una feluca. Dalla finestra della mia cabina, vedevo scorrere sul mare immobile le isole calcaree quasi nere, ricoperte di foresta pluviale, le spiagge bianchissime, i villaggi costituiti da barche, ancorate fra loro.
BACHA
Per il secondo week-end libero sono partita di notte su una specie di Orient-Express locale e mi sono ritrovata la mattina a vedere risaie a terrazze, che trasformavano le colline in creste ondulate, bananeti e piantagioni di tè.
È qui che si svolge il mercato, dove si ritrovano le varie etnie locali, i Dzao e i H’Mong, per scambiarsi i loro prodotti: galline, bufali, ortaggi e il loro artigianato. Ogni etnia e’ riconoscibile dal costume: eleganti tuniche blu, legate da una una fascia arancione, abiti e copricapi in tessuti che uniscono il giallo, il rosa, il verde. Sulla schiena, le donne portano una lunga treccia nera e, quasi sempre, un bambino legato con una striscia di tessuto negli stessi colori dei loro vestiti.
So che non finirà qui, la mia prossima missione potrebbe svolgersi in Nepal. Quando viene a prendermi la macchina che mi porterà all’aeroporto, il mio moto-driver preferito, quello che mi proteggeva dalla pioggia con una mantella e dagli scarti degli altri motorini, corre a salutarmi. Non so cosa dice, ma vorrei dargli la mano o abbracciarlo. Lo saluto da lontano, come vogliono le convenzioni del luogo.
Projects Abroad – Per info: www.projects-abroad.it – Tel. 0810067162