Efeso è nel mio destino. È la terza volta che la visito, la prima quando ero un’adolescente, già attirata dall’archeologia, ma anche dai ragazzi e dai balli che si svolgevano ogni sera sulla nave da crociera su cui navigavamo, la seconda insieme a una mia amica, sotto un sole rovente, che ci fece perdere l’orientamento, in un’ora in cui ci aggiravamo sole fra le rovine. Efeso, bella, sontuosa, affascinante merita sicuramente uno sguardo più attento. Ed eccomi di nuovo qua, insieme a Stefania e a un gruppo di nostri amici, con cui sono partita da Samos. Una città che forse già esisteva al tempo degli Ittiti o che porta, come vuole la leggenda, il nome di una regina della Amazzoni.
Conquistata dai Cimmeri e poi dai Persiani, Alessandro Magno vi entrò nel 334 a.C., accolto come un dio. Punto di contatto fra l’Occidente e l’Oriente, centro nevralgico di commerci e di scambi, proprio qui venne costruita una delle sette meraviglie dell’antichità, il tempio di Artemide, la dea vergine, costituito di centoventisette colonne. Di cui ne rimane una soltanto. Il suo apogeo, il suo momento di maggior prosperità coincise con l’impero di Augusto, che la nominò capitale della provincia romana dell’Asia Minore, una metropoli con più di 200mila abitanti. Ma vediamola o immaginiamola oggi. All’ingresso si trova una delle varie terme, che davano il benvenuto ai viaggiatori, e l‘Odeon, sede di riunioni politiche.
Ma a catturare l’attenzione é subito la lunga via di calcare bianco, che crea giochi di luce sotto il sole, la linea centrale della città, su cui si affaccia il tempio di Domiziano, con la statua che lo raffigurava alta sette metri e il monumento a Memmio con le cariatidi costituite da soldati coperti da una toga. Si prosegue sulla via dei Cureti, una strada lastricata ai cui lati si trovano i ruderi degli antichi portici colonnati.
Qui si affaccia il tempio di Adriano, riccamente decorato, con colonne corinzie, sovrastate da un ampio arco. Adriano, che amava molto Efeso, vi tornò due volte e si occupò dei lavori del porto. Ma su questo tratto di strada si affacciavano anche fontane, negozi che vendevano prodotti provenienti da ogni parte dell’Impero e le case dei cittadini più abbienti. Come le case romane avevano un grande cortile interno, circondato da un porticato coperto, ricche di mosaici, di marmi, di affreschi dai colori vivacissimi. È sempre su questa strada che troviamo la Casa dell’Amore, un postribolo che sembra indicato dall’impronta di un piede sinistro inciso su una lastra di marmo: bastava appunto girare a sinistra, per trovarlo.
E finalmente, come una quinta teatrale, la Biblioteca di Celso, il simbolo di Efeso, una struttura impossibile da dimenticare, in uno stile elegante, raffinato, eclettico. Fu costruita in onore di Celso, che ne fu proconsole, su due ordini di colonne di stile corinzio, con statue che rappresentano la saggezza, la conoscenza, l’intelletto. Nelle nicchie scavate nelle pareti erano conservati i rotoli.
E siamo arrivati al Teatro Grande, costruito in parte nella collina, che poteva contenere fino a 24mila spettatori. Allora il porto era l’entrata principale della città e l’imponente teatro ammaliava i viaggiatori. Forse nello stesso modo di oggi.